02 febbraio 2025

DISTANZA DELLE COSTRUZIONI DALLE VEDUTE

Ho trovato interessante questo articolo tratto da brocardi.it che spiega l'art. 907 del Codice Civile, che disciplina la distanza minima delle costruzioni rispetto alle vedute (diritto di affaccio). Per chi volesse approfondire lascio il link all'articolo e di seguito un  riassunto dei contenuti.

L'articolo in questione dice che:

Quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, misurata a norma dell'articolo 905.

Se la veduta diretta forma anche veduta obliqua, la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita.

Se si vuole appoggiare la nuova costruzione al muro in cui sono le dette vedute dirette od oblique, essa deve arrestarsi almeno a tre metri sotto la loro soglia.

Riassunto

L'art. 907 stabilisce che, quando esiste un diritto acquisito di veduta diretta sul fondo vicino, il proprietario del fondo confinante non può costruire a una distanza inferiore a 3 metri. Questa distanza va rispettata anche lateralmente e al di sotto delle finestre che formano la veduta diretta o obliqua.

Scopo della norma:

Proteggere il diritto di veduta, consentendo una sufficiente illuminazione e visibilità, evitando che nuove costruzioni ostacolino tali prerogative.

Dettagli sulle costruzioni:

Il termine "fabbricare" include qualsiasi struttura stabile che possa limitare la veduta, comprese le opere non in muratura (ad esempio steccati o antenne). La distanza si applica orizzontalmente, lateralmente e verticalmente rispetto alla finestra.

Applicazioni pratiche e deroghe:

È possibile ampliare o ridurre la distanza rispetto alla norma in base a convenzioni tra le parti o per destinazione del padre di famiglia.

La distanza legale non si applica se tra i fondi è presente una via pubblica.

Giurisprudenza:

Viene ribadita la natura assoluta del rispetto delle distanze, senza possibilità di discrezionalità da parte dei giudici.

Cosa significa "per destinazione del padre di famiglia"?

La "destinazione del padre di famiglia" è un concetto giuridico che si riferisce a una modalità attraverso la quale possono nascere servitù (diritti reali su proprietà altrui) in assenza di un contratto esplicito tra le parti. Si basa sulla configurazione delle cose fatta da un unico proprietario prima che i fondi vengano divisi.

In dettaglio:

Quando un unico proprietario possiede due fondi (terreni o immobili) e dispone le cose in modo tale che uno dei fondi beneficia dell'altro (ad esempio, aprendo una finestra su un muro per avere luce o una veduta), questa situazione può costituire una servitù apparente.

Apparente significa che la servitù è visibile e materiale, come una finestra, un canale di scolo, una strada o un passaggio.

Quando i fondi vengono separati (venduti o donati a persone diverse), si presume che la configurazione iniziale resti valida e che il diritto nato da questa situazione continui a esistere, a meno che non venga specificamente escluso nel contratto.

Applicazione all'art. 907:

Se una finestra (veduta) è stata realizzata quando i due fondi appartenevano a un unico proprietario e poi i fondi vengono separati, la veduta può considerarsi una servitù di veduta per destinazione del padre di famiglia. In tal caso:

Il nuovo proprietario del fondo vicino deve rispettare la distanza di 3 metri dalle vedute esistenti, come stabilito dall'art. 907 del Codice Civile.

Questo diritto nasce automaticamente e non richiede un contratto specifico.

In termini pratici cosa significa che "È possibile ampliare o ridurre la distanza rispetto alla norma in base a convenzioni tra le parti?"

In termini pratici, l'affermazione che "è possibile ampliare o ridurre la distanza rispetto alla norma in base a convenzioni tra le parti" significa che i vicini possono accordarsi privatamente per modificare le regole standard sulle distanze minime previste dalla legge, come quelle stabilite dall'art. 907 del Codice Civile. Tali accordi, però, devono rispettare alcuni limiti e formalità per essere validi.

Ampliamento della distanza:

Esempio: Due vicini si accordano affinché la distanza delle costruzioni rispetto alle vedute sia maggiore di 3 metri, ad esempio 5 o 10 metri.

Motivazione: Potrebbe accadere se uno dei proprietari desidera maggiore privacy o un accesso ottimale alla luce naturale per le sue finestre.

Effetto: Questo ampliamento diventa vincolante per entrambe le parti e per eventuali futuri acquirenti dei fondi, se formalizzato correttamente (di solito tramite un contratto registrato o una servitù).

Riduzione della distanza:

Esempio: I vicini concordano che una costruzione possa essere realizzata a una distanza inferiore a 3 metri, ad esempio 2 metri.

Motivazione: Potrebbe accadere in contesti urbani molto densi, dove il rispetto della distanza legale potrebbe essere difficoltoso o poco pratico.

Effetto: La riduzione è valida solo se l'accordo è esplicito e non viola altre norme di ordine pubblico (ad esempio, regolamenti edilizi locali che non permettono distanze inferiori).

Formalizzazione dell'accordo:

Perché questi accordi siano efficaci:

Devono essere stipulati in forma scritta, solitamente tramite atto notarile, soprattutto se riguardano modifiche permanenti.

Possono configurare una servitù volontaria (un diritto reale), che deve essere trascritta nei registri immobiliari per essere opponibile ai futuri proprietari.

Devono rispettare i regolamenti edilizi locali e non possono violare norme di ordine pubblico.

Cosa non si può fare:

Non si possono ridurre le distanze a livelli tali da violare il diritto alla sicurezza o alla salubrità degli ambienti, tutelato dalla legge.

Gli accordi non possono essere imposti unilateralmente; devono essere concordati da entrambe le parti.

In sintesi, questo margine di flessibilità consente ai vicini di adattare le regole standard alle loro specifiche esigenze o contesto, purché ci sia un consenso reciproco e il rispetto delle altre normative.

22 gennaio 2025

NUOVA PROROGA DI 36 MESI DEI TITOLI ABILITATIVI

  La normativa che ha concesso una proroga di 30 mesi per l'inizio e la fine dei lavori relativi ai titoli edilizi è stata introdotta dal Decreto-Legge 181/2023, convertito nella Legge 11/2024. Questa disposizione ha esteso la proroga dei termini di inizio e fine lavori da 24 mesi (2 anni) a 30 mesi (2 anni e 6 mesi) per i permessi di costruire e le SCIA rilasciati o formatisi fino al 30 giugno 2024. 


Successivamente, il Decreto Milleproroghe (D.Lgs. 202/2024), approvato dal Consiglio dei Ministri il 9 dicembre 2024 e convertito in L. 18/2024 (G.U. nr.49 del 28/02/2024), ha ulteriormente esteso questa proroga di ulteriori 6 mesi, portando il totale a 36 mesi (3 anni). Questa estensione si applica ai termini di inizio e fine lavori dei permessi di costruire e delle SCIA rilasciati o formatisi fino al 31 dicembre 2024. 

In sintesi:

Proroga iniziale: Il Decreto-Legge 181/2023, convertito nella Legge 11/2024, ha esteso la proroga dei termini di inizio e fine lavori da 24 a 30 mesi per i titoli edilizi rilasciati o formatisi fino al 30 giugno 2024.

Proroga aggiuntiva: Il Decreto Milleproroghe del 9 dicembre 2024 ha ulteriormente esteso questa proroga di 6 mesi, portando il totale a 36 mesi per i titoli edilizi rilasciati o formatisi fino al 31 dicembre 2024.


È importante notare che per avvalersi di queste proroghe, l'interessato deve comunicare al Comune la propria intenzione, assicurandosi che i termini non siano già scaduti al momento della comunicazione e che il titolo abilitativo non sia in contrasto con nuovi strumenti urbanistici o provvedimenti di tutela dei beni culturali o del paesaggio.

Per effettuare la comunicazione è sufficiente specificare che ci si intende avvalere della proroga straordinaria concessa ai sensi dell'art. 10-septies  D.Lgs. 21/2022 convertito in L.  51/2022 e s.m.i..

11 novembre 2024

SCIA IN SANATORIA E CALCOLO OBLAZIONE

Con le modifiche apportate al D.P.R 380/2001 dal D.L. 69/2024, convertito in L. 105/2024,  cambia la disciplina relativa all'oblazione da versare in caso di sanatoria per interventi edilizi realizzati in parziale difformità o variazione essenziale dal permesso di costruire e in caso di assenza o difformità dalla Segnalazione Certificata di Inizio Attività. 
La nuova disciplina è contenuta nell' art. 36 bis del D.P.R. 380/2001. 

Pare sia “imminente” l'emanazione di una circolare ministeriale in materia di oblazioni ma non sempre gli annunci corrispondono ad altrettanta celerità per cui, nel frattempo, può essere  utile avere qualche indicazione pratica su come procedere nel calcolo.

Mi soffermerò ad analizzare la fattispecie più comune ovvero la sanatoria in caso di interventi edilizi eseguiti in caso di assenza o difformità dalla Segnalazione Certificata di Inizio Attività.

Di fronte ad opere di minima entità l'importo della sanzione è facilmente determinabile:
    ove l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione, sia al momento della presentazione della domanda l'importo corrisponderà  ai "vecchi" 516,00 € (conformità “sincrona”);
    ove l'intervento risulti conforme alla requisiti prescritti dalla disciplina edilizia  vigente al momento della realizzazione  ed  alla disciplina urbanistica vigente  al  momento della presentazione della domanda l'importo da versare, a titolo di oblazione, corrisponderà  a 1032 € (conformità “asincrona”).

E nel caso di interventi di maggiore entità?

Sarà necessario ricorrere alla valutazione del valore venale dell'immobile da parte dell'Agenzia delle Entrate (il valore venale corrisponde al valore di mercato) dopodiché il tecnico comunale dovrà decidere quale sanzione comminare in un range variabile tra 516,00 € e 5.164,00 € in caso di conformità “sincrona” o tra 1032 € e 10.328 €, in caso di conformità “asincrona”
Ho trovato interessante, a questo proposito, il metodo illustrato dall'Ing. Carlo Pagliai (video consultabile al seguente link https://www.youtube.com/watch?v=e3jyHYujVBU ) per la semplicità di applicazione.
Il punto di partenza è ovviamente la valutazione del valore venale dell'immobile prima e post intervento effettuata dall'Agenzia delle Entrate. La differenza tra questi valori, secondo il dispositivo di legge, va calcolata al doppio. Fin qui tutto semplice. La difficoltà, per i tecnici comunali, risiede nella fase successiva ovvero nello stabilire la sanzione in base al valore ottenuto (il doppio del valore venale).
Nel metodo proposto si opera semplicemente un rapporto tra il doppio del valore venale e il valore dell'immobile prima dell'intervento. Si ottiene a questo punto un numero inferiore a uno che, di fatto, rappresenta l'incidenza percentuale della sanzione sul valore venale dell'immobile prima dell'intervento.
A questo punto  per stabilire quale sanzione comminare sarà sufficiente applicare il medesimo valore così ottenuto all'interno della fascia di oblazione ottenendo un valore “proporzionale”.
Se, malauguratamente, il rapporto percentuale dovesse superare l'unità l'oblazione dovrà essere applicata nella misura massima.

Di seguito un esempio di calcolo:
Valore iniziale immobile ante abuso: 100.000 €
Valore immobile post abuso: 140.000 €  (il valore delle singole opere è indifferente)
Aumento valore venale: 140.000 € - 100.000 € = 40.000 €
Raddoppio aumento del valore venale: 40.000 € x 2 = 80.000 €
Rapporto % tra Raddoppio e Valore iniziale = 80.000 /100.000 = 0,8 (80 %)
Applicazione percentuale 80% all'interno della fascia di oblazione = 80% x ( 10.328 € – 1,032 €) = 7.436,80 € (importo dell'oblazione)

29 ottobre 2024

VADEMECUM ALTEZZE ABITABILI (ALLEGATO SCARICABILE CON ESTRATTI NORMATIVI)

Come noto, il DM 5 luglio 1975 detta la norma generale in base alla quale l'altezza minima interna dei vani abitabili è fissata in m 2,70 mentre per i vani accessori è riconducibile a m 2,40. Restano esclusi gli spazi di servizio come ad esempio le centrali termiche, i garages, ecc.. Il DM 5 luglio 1975 apportava modificazioni alle istruzioni ministeriali 20 giugno 1896.

Meno nota, ma tuttora vigente, è la norma dettata dall' art.43 della L. 457/1978 che sostanzialmente ricalca le altezze già indicate nel DM 5 luglio 1975. L'articolo 43 si applica all’edilizia residenziale in genere, anche se non fruisce di contributi pubblici. Da notare che non si applica a interventi di recupero sul patrimonio edilizio esistente.

Veniamo ora alle eccezioni alla regola generale.

Innanzi tutto da ricordare la norma di interpretazione autentica enunciata dall'art 10 del DL 76/2020 “Semplificazioni” poi convertito in L 120/2020, in base alla quale i requisiti relativi all'altezza minima e i requisiti igienico-sanitari dei locali di abitazione non si applicano agli immobili che siano stati realizzati prima della data di entrata in vigore del DM 5 luglio 1975 e che siano ubicati nelle zone A o B o in zone a queste assimilabili. La norma è con scadenza temporale cioè vale fino a quando verrà emanato il decreto sui requisiti igienico-sanitari degli edifici di cui all’articolo 20, comma 1-bis DPR 380/01.

Successivamente è intervenuto il decreto legge 77/2021 (poi legge 108/2021) che con l’art. 51 comma 1 lettera f-bis ha aggiunto il comma 2-bis nell’articolo 10 della legge n. 120/2020 ed ha fissato , in deroga al DM 5 luglio 1975 , con riferimento agli immobili di interesse culturale, sottoposti a tutela ai sensi del D.Lgs. 42/2004, l'altezza minima interna utile dei locali adibiti ad abitazione in 2,4 m, riducibili a 2,2 m per i corridoi, i disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti e i ripostigli.

C'è poi la deroga alle altezze del DM 5 luglio 1975 in caso di riqualificazione energetica di cui al DM Requisiti 1 ottobre 2015 Allegato 1 paragrafo 2.3 punto 4.In base a tale norma negli edifici esistenti sottoposti a ristrutturazioni importanti, o a riqualificazioni energetiche, nel caso di installazione di impianti termici dotati di pannelli radianti a pavimento o a soffitto e nel caso di intervento di isolamento dall’interno, le altezze minime dei locali di abitazione previste al primo e al secondo comma, del decreto ministeriale 5 luglio 1975, possono essere derogate, fino a un massimo di 10 centimetri.

E arriviamo infine alle ultime novità introdotte dal DL 69/2024 “Salva Casa” convertito in L 105/2024 in base a cui il progettista abilitato è autorizzato ad asseverare la conformità del progetto alle norme igienico-sanitarie nei locali con un'altezza minima interna inferiore a 2,70 metri fino al limite massimo di 2,40 metri ove sia soddisfatto il requisito dell'adattabilità e sia soddisfatta almeno una delle seguenti condizioni: a) i locali siano situati in edifici sottoposti a interventi di recupero edilizio e di miglioramento delle caratteristiche igienico-sanitarie; b) sia contestualmente presentato un progetto di ristrutturazione con soluzioni alternative atte a garantire, in relazione al numero degli occupanti, idonee condizioni igienico-sanitarie dell'alloggio, ottenibili prevedendo una maggiore superficie dell'alloggio e dei vani abitabili ovvero la possibilità di un'adeguata ventilazione naturale favorita dalla dimensione e tipologia delle finestre, dai riscontri d'aria trasversali e dall'impiego di mezzi di ventilazione naturale ausiliari. La norma è con scadenza temporale cioè vale fino a quando verrà emanato il decreto sui requisiti igienico-sanitari degli edifici di cui all’articolo 20, comma 1-bis DPR 380/0001.

Infine è necessario fare una raccomandazione:  consultare sempre le disposizioni regolamentari edilizie comunali o locali previgenti e posteriori al D.M. Sanità 5 luglio 1975 in quanto possono dettare ulteriori prescrizioni o deroghe in materia di altezze abitabili rispetto a quanto sopra illustrato.

vademecum estratti normativi


08 luglio 2024

DIFFORMITA' PARZIALI: COMPITI E RESPONSABILITA' DEI PROFESSIONISTI TECNICI

Tra le diverse modifiche introdotte dal  D.L. 69/2024 (c.d. Decreto Salva casa) al Testo Unico dell’edilizia, vi sono disposizioni che riguardano direttamente i professionisti tecnici che sono investiti di nuovi compiti e responsabilità nelle procedure per l’accertamento di conformità nelle ipotesi di parziale difformità.

 Il nuovo art. 36 bis D.P.R. 380/2001 (introdotto dall’art. 1 del D.L. 69/2024), per la sanatoria delle difformità parziali prevede una doppia conformità “semplificata” stabilendo che il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso di costruire e presentare la SCIA in sanatoria allo sportello unico se l’intervento risulti conforme:

- alla disciplina urbanistica vigente al momento della presentazione della domanda,
- nonché ai requisiti prescritti dalla disciplina edilizia vigente al momento della realizzazione.
La richiesta deve essere accompagnata dalla dichiarazione del professionista abilitato che attesti le necessarie conformità. Per la conformità edilizia, la dichiarazione è resa con riferimento alle norme tecniche vigenti al momento della realizzazione dell’intervento.

L’epoca di realizzazione dell’intervento è provata mediante la documentazione che attesta lo stato legittimo di cui all’art. 9-bis comma 1bis D.P.R. 380/2001. Qualora tale documentazione non risulti disponibile, il tecnico incaricato attesta la data di realizzazione con propria dichiarazione e sotto la sua responsabilità.
In caso di dichiarazione falsa o mendace si applicano le sanzioni penali, comprese quelle previste dal capo VI del D.P.R. 445/2000 (comma 3 dell’art. 36 bis D.P.R. 380/2001 ).

Al fine di agevolare la predisposizione delle necessarie asseverazioni ho predisposto due modelli  in formato editabile (.odt).





26 maggio 2024

ABUSI EDILIZI: RASSEGNA MONOTEMATICA DI GIURISPRUDENZA

L'Ufficio del massimario della Giustizia Amministrativa ha pubblicato una rassegna monotematica di giurisprudenza in tema di abusi edilizi. Si tratta di un compendio delle principali sentenze in tema di abuso edilizio e dei mezzi offerti, sia al pubblico che al privato, per porvi rimedio. L’intento, perseguito mediante l’analisi degli aspetti sostanziali e dei profili procedimentali e processuali, è di offrire una panoramica dell’evoluzione giurisprudenziale anche in relazione agli interventi normativi succedutisi negli anni.


25 aprile 2024

EDIFICI UNIFAMILIARI E CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE

 La norma alle sue origini

Come noto, l'art. 17 comma 3 lett. b) D.P.R. 380/2001 prevede l'esenzione dal versamento del contributo di costruzione  per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari. La norma fu introdotta con L. 10/77 ( legge “Bucalossi”) (art. 9 comma 1 lettera d) e, successivamente, è stata ripresa, pressoché identica, nell'art. 17 del D.P.R. 380/01.

Concetto di ristrutturazione e sua evoluzione nel tempo

Se la formulazione della norma è rimasta intatta dal 1977 ad oggi altrettanto non si può dire per il concetto di ristrutturazione che nel tempo ha allargato progressivamente  i propri confini fino alla cosiddetta ristrutturazione demo-ricostruttiva ovvero con  sedime, sagoma e prospetti differenti dall'edificio originario. Ciò che ne consegue è che fabbricati unifamiliari del tutto nuovi  e talvolta di consistenti dimensioni e caratteristiche di signorilità, realizzati in ristrutturazione demo-ricostruttiva,  risultano formalmente  esentati dal pagamento del contributo di costruzione.

Esenzione SI' esenzione NO

La domanda che ci si pone è allora la seguente: la norma che esenta dal versamento del contributo di costruzione gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari vale davvero per tutti gli edifici unifamiliari indipendentemente dalle dimensioni e dalle caratteristiche del fabbricato unifamiliare?

Come si può immaginare l'argomento è ampiamente dibattuto. 

Da una parte c'è chi ritiene non ammissibile che il regolamento edilizio comunale (o  atto similare), quale fonte normativa di rango secondario,  possa limitare l'esenzione a certe condizioni o tipologie di edifici unifamiliari quando, invece, la norma nazionale, non lo prevede. Vedasi, in questo senso, il commento di Bosetti & Gatti.

Sul versante opposto vi sono interessanti sentenze che invece giustificano la non applicabilità dell'esenzione a determinate categorie di fabbricati unifamiliari. E' interessante l'approfondimento del sito entionline.it con la Circolare del 05/04/2024 dal titolo Edifici unifamiliari: onerosità e deroghe. Nel seguito provo a riassumerne brevemente i contenuti.

La ratio comune a questo orientamento giurisprudenziale si incardina su alcune importanti considerazioni. 

   Una prima osservazione sta nel fatto che trattasi di una norma di carattere eccezionale in deroga alla regola generale che prevede il versamento del contributo di costruzione e, come tale, impone un’interpretazione restrittiva e rigorosa, ancorata agli specifici parametri normativi di riferimento vigenti all’epoca in cui tale disposizione ha visto la luce.

  Una seconda osservazione riguarda la ragione dell'esenzione di cui all'art. 17, che, secondo la  giurisprudenza, risiede nella nella promozione delle opere di adeguamento degli edifici alle necessità abitative del singolo nucleo familiare. Risulta pertanto indispensabile  il collegamento alla vita familiare e alle relative necessità abitative. 

  Un'altra osservazione, legata alla finalità dell'esenzione, sta nello scopo di equità sociale ovvero promuovere la salvaguardia e la tutela della “piccola proprietà immobiliare”. In altre parole la definizione “edificio unifamiliare” va intesa nella sua accezione socio-economica, che coincide “con la piccola proprietà immobiliare” (T.A.R. sez. I, Brescia, 26/4/2018, n. 449; nel medesimo senso si veda anche T.A.R. Toscana, Sez. III, 26/4/2017 n. 616; T.A.R. Campania, Salerno, Sez. I, 22/6/2015 n. 1416; T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 21/11/2014 n. 2180 e T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. IV, 2/7/2014 n. 1707).

In sintesi, si può affermare che l’esenzione si giustifica come aiuto alla famiglia che, sinteticamente, necessiti di ulteriore spazio per la propria decorosa sistemazione abitativa.

Come individuare gli edifici unifamiliari esentati/non esentati dal contributo di costruzione

In mancanza di un limite dimensionale fissato direttamente nel regolamento edilizio locale o dalla norma di piano, si possono elencare sentenze in cui edifici palesemente “fuori scala” non sono stati considerati unifamiliari:

- la sentenza  T.A.R. Lombardia Brescia, Sez. II, n. 423 del 2/05/2022  utilizza come parametro dimensionale la volumetria per abitante teorico stabilita dall'art. 3 del D.M. 1444/1968  ai fini del dimensionamento degli standard urbanistici, pari a 100 mc/ab. In base a tale parametro un fabbricato di 1240 mc risulta adatto a 12,40 abitanti e pertanto oggettivamente “fuori scala” per essere ritenuto unifamiliare.

- intervento su un fabbricato di 13 vani, avente volumetria complessiva di mc. 1.338,78 distribuiti su tre livelli (cfr. T.A.R. Campania Salerno, sez. I, sent. n. 14169 del 22/6/2015);

- villa di 19 vani con una superficie di 63(cfr. T.A.R. Toscana, sez. III, sent. n. 616 del 26/4/2017);

Ho trovato la  sentenza T.A.R. Lombardia Brescia, Sez. II,  n. 423 del 2/05/2022 molto  interessante sotto vari aspetti pertanto la allego qui sotto per chi volesse approfondire l'argomento.

sentenza_TAR_LB_423_2022


DISTANZA DELLE COSTRUZIONI DALLE VEDUTE

Ho trovato interessante questo articolo tratto da brocardi.it  che spiega l'art. 907 del Codice Civile, che disciplina la distanza minim...